dalla palestina al carcere di modena quando il biologico coltiva i diritti umani

“Nei paesi in via di sviluppo non c’è giustizia sociale senza biologico”. A dirlo è Jacqueline Haessig Alleje, impegnata da anni, in prima persona, a diffondere le pratiche bio fra i contadini delle Filippine e rappresentante di Ifoam al Congresso mondiale del biologico, in corso a Modena fino al 20 giugno. “Per chi abita nelle aree rurali del mondo – spiega la Alleje –, ridotte alla fame dall’industria agricola e costrette ad abbandonare le campagne per le città, passare al biologico significa riacquistare i propri diritti: e non si tratta solo di essere pagati in modo equo, ma anche di difendere la propria identità culturale”. Le esperienze biologiche, grazie alla cooperazione internazionale, al commercio equo e solidale e al microcredito, si sono moltiplicate in tutto il mondo. In Sud America la noce dell’Amazzonia, primo prodotto equo ad arrivare sugli scaffali della grande distribuzione organizzata, è diventata il simbolo della difesa della foresta e dei suoi abitanti. In Palestina, a Jenin, l’agricoltura biologica ha dato lavoro a 200 disoccupati e da vivere a intere famiglie, oltre a diventare terreno di dialogo fra israeliani e palestinesi. In Etiopia, la produzione del miele è diventata un modo per introdurre metodi di coltivazione prima sconosciuti. “Ora possiamo e dobbiamo pensare su grande scala – sottolinea Alice Tepper Marlin, presidente di Sai (Social accountability international), ente che definisce gli standard per rispettare i diritti umani sul lavoro –. Oggi i consumatori sono disposti a spendere di più per prodotti ‘giusti’, sono consapevoli che si può costruire un mondo migliore anche con i propri acquisti”.

E se nei paesi in via di sviluppo l’agricoltura biologica è un modo per garantire i diritti dei lavoratori, nella parte “ricca” del mondo si rivela uno strumento utilissimo per l’inserimento sociale e lavorativo di persone con disabilità mentale, ex-tossicodipendenti e oggi anche detenuti. Proprio Modena è all’avanguardia in questo campo. La Casa circondariale cittadina è infatti uno dei quattro istituti penitenziari italiani (su un totale di 200), ad ospitare al suo interno un’azienda agricola biologica. A partire dal 2000, l’istituto modenese ha avviato due specifici progetti finalizzati al recupero e al reinserimento sociale dei detenuti. Uno è incentrato sull’apicoltura; l’altro, denominato “Agricola 2000”, sull’agricoltura biologica. “Abbiamo optato per questa scelta – spiega il direttore della Casa circondariale, Paolo Madonna – per offrire ai detenuti, in gran parte stranieri, la possibilità di apprendere tecniche colturali a basso impatto ambientale da applicare quando torneranno nei loro Paesi d’origine”.

Sotto la guida di agronomi esterni, i detenuti – una quindicina, inquadrati come braccianti agricoli e regolarmente retribuiti – lavorano all’azienda agricola interna, che occupa una superficie complessiva di 4 ettari. A partire dal 2006 la produzione di vegetali e ortaggi (2,5 tonnellate annue) è certificata bio, mentre la frutta (due tonnellate) è ancora in regime di conversione. Molto ampia la gamma di prodotti coltivati all’interno del carcere: drupacee (susini, prugne, albicocchi, ciliegi, peschi) e pomacee (peri e meli), vigneti (lambrusco, albana, sangiovese, trebbiano), piccoli frutti (more, ribes, uva spina) e un fragoleto. Nella serra vengono coltivate piantine agricole e da fiore, piante ornamentali, siepi di essenze autoctone (corniolo, sambuco, prugnoli ecc.) erbe aromatiche.

I prodotti biologici risultanti dalle attività agricole sono destinati, per ora, alla vendita al dettaglio nello spaccio interno, in attesa che modifiche normative consentano la distribuzione anche all’esterno del carcere.

 

 

 

 

 

 

Ufficio stampa: tel. 059 7476608 – cell. 3316488588

bio2008ufficiostampa@provincia.modena.it

Oppure: AGENDA, tel. 051 330155 – cell. 339 3595826, e-mail: ufficiostampa@agendanet.it

 

Pubblicato: 19 Giugno 2008