“storie di terra e di rezdore” 1 – non solo ricette ma la storia di una terra agricola e delle sue radici

I più anziani sono don Antonio Galli – 99 anni compiuti, “inventore” di uno dei primi caseifici sociali in Appennino negli anni Cinquanta – e Celeste Fontana, 96 anni, battitore di forme di parmigiano reggiano tuttora in attività. Le più giovani sono le ragazze che si ritrovano nelle occasioni speciali nella parrocchia di Gombola per fare i tortellini. Oppure lo chef 2 stelle Michelin Massimo Bottura, 44 anni, “allievo” della maestra di sfoglia Lidia Cristoni.

Attraversa diverse generazioni la ricerca “Storie di terra e di rezdore”, promossa dalla Provincia di Modena, finanziata dalla Comunità Europea e realizzata da Slow Food Italia per documentare il patrimonio  di tradizioni, saperi e lavorazioni agricole e gastronomiche del territorio. La ricerca è stata presentata sabato 6 ottobre alla Fiera di Modena, nell’ambito di Gusto Balsamico, alla presenza dei protagonisti (comunicato n. 1392).

Le 199 interviste filmate che compongono la ricerca documentano svariati mestieri, e non solo quello della “rezdora”: quelli ancora oggi comuni (casari, cuoche, fornai, raccoglitori di frutti di bosco e di funghi, agricoltori, vinai, veterinari, osti, macellai) e  quelli che comuni erano un tempo e adesso sono quasi rarità (pastori transumanti, mugnai, mondine, norcini, pescatori di rane, braccianti, cantori del maggio, mercanti di bestiame, proprietari terrieri). Ci sono addirittura due mezzadri ancora in attività, i fratelli Alfredo e Arrigo Coppi di Pievepelago: sopravvissuti a tutte le modifiche legislative (questo tipo di contratto agricolo è stato abolito nel dopoguerra), ancora oggi ripartiscono al proprietario una quota del 35% del raccolto.

La ricerca ricostruisce le trasformazioni dell’agricoltura (da policoltura-allevamento a monocoltura intensiva, mutamento che ha comportato la perdita di numerosissime varietà, dalla frutta al grano) e, di conseguenza, i cambiamenti nell’alimentazione: quella di un tempo ben diversa dallo stereotipo della cucina modenese di oggi, ricca, grassa e opulenta.  Alimentazione povera, legata a ciò che producevano l’orto e la terra: e quindi zuppe, patate, tante verdure, polenta, pollo, brodo. Più volte alla settimana la pasta sfoglia perché tutti avevano il grano per la farina e le galline per le uova. Quasi mai i tortellini, piatto diventato oggi di consumo quasi quotidiano e riservato, fino a qualche decennio fa, alle occasioni speciali: Natale e la festa del patrono. E poi le castagne, alimento quasi esclusivo per le popolazioni povere della montagna (comunicato n. 1391).

E’ raccontata l’agricoltura, la cucina, ma si aprono ampi squarci anche sulla società di una volta, sulle abitudini di vita, i passatempi, le consuetudini legate alle occasioni speciali – feste, matrimoni – ma anche alle fasi agricole, come la vendemmia, la trebbiatura e la macellazione del maiale. Ci sono i canti del maggio delle valli del Dolo e Dragone, basati su storie epiche, e quelli “delle anime” di Riolunato, per le indulgenze; i canti delle mondine e gli stornelli (“zirudele”) per i matrimoni. I giochi: la disfida dei fuochi, la ruzzola con le forme di formaggio pecorino, lo scoccino con le uova sode colorate il lunedì di Pasqua.

Un mondo che ancora esiste nei ricordi di centinaia di persone, ma che sta rapidamente scomparendo. Da qui , l’urgenza di acquisire e fissare per sempre – attraverso i filmati – i racconti di queste persone per consegnarli alle generazioni future. Per evitare quello che Carlo Petrini, presidente internazionale di Slow Food, ha definito “un genocidio culturale”, cioè la perdita delle proprie radici. In cucina e non solo. 

Pubblicato: 06 Ottobre 2007Ultima modifica: 27 Maggio 2020