Negli anni ’50 l’Italia era il secondo maggior produttore di canapa al mondo (dietro soltanto ai paesi dell’ex Unione Sovietica) e la produzione era concentrata principalmente in Emilia Romagna. Tradizionalmente era coltivata per le lunghe fibre (dette liberiane perché si formano nel libro, la parte esterna del fusto) adoperate per la produzione di indumenti, biancheria, ma soprattutto corde e vele. La varietà “Carmagnola” forniva la miglior fibra in assoluto. Per secoli (almeno fin dal 1300, l’acquirente era la Marina inglese) l’Italia ha esportato canapa e da sempre la varietà italiana è stata riconosciuta come produttrice della miglior qualità di fibra tessile per indumenti.
Usata per vestirsi e produrre qualunque tipo di cordame, tessuto, carta (fino all’inizio del ‘900 la quasi totalità della carta era prodotta con canapa), i semi della canapa davano un ottimo olio combustibile e in campo farmaceutico le sue applicazioni erano vastissime. Il rapido declino è stato decretato dalla introduzione delle fibre sintetiche che hanno portato alla scomparsa della coltura in Italia.
Oggi lo spettro delle possibili utilizzazioni della canapa è incredibilmente ampio ed in letteratura sono riportati decine di possibili impieghi. La sua particolare duttilità merceologica, unita alle caratteristiche della coltura agricola a basso impatto ambientale hanno portato molti autori a considerare la canapa una pianta di estremo interesse per il futuro, capace addirittura, con qualche esagerazione, di “salvare il pianeta” da piaghe quali la deforestazione, il buco nello strato di ozono, l’inquinamento. Nei progetti che si stanno sviluppando in Emilia Romagna e a Modena la coltivazione della canapa è prevista a fini industriali e bioenergetici.
In Italia la coltivazione è ritornata solo nel 1998 su di una superficie di circa 350 ha (contro i quasi 100.000 ha degli anni ’50).